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presentazione di Gabriel Mandel

Considerando l’opera di un pittore d’oggi andrebbe tenuto conto anzitutto che l’idea per esprimere qualcosa di nuovo, di non ancora visto, è una delle imprese più difficili e rare; e che in definitiva l’Arte è testimonianza del tempo, per cui tanto più essa lo esprime e tanto più essa è valida. Così, quando vedo l’essere di un pittore realizzare questo noi stessi che usualmente ci sfugge,ne sono contento, ed ancor più contento quando per una qualche ragione lo posso dire, e ho facoltà di esprimere la mia stima per lui. Sono lieto quindi di poter considerare oggi un pittore (completo, denso e sensibile) di là da quelle facili completezze che oggi ad ogni istante ci ingombrano le mostre e la vista sino ad opprimerci.
Egregio Giordano Redaelli, lei in effetti – appunto quale testimone del tempo - sta consegnando la nostra identità ai posteri, nella sua evidenza completa, denunciando le nostre passioni, i nostri sentimenti, i nostri limiti, e forse le nostre paure; e questo da sempre è stato lo scopo principale dell’Arte. Così, specchiandoci in queste opere alla ricerca di noi stessi, identifichiamo la nostra realtà, superando i meri aspetti estetici o le belle ed eminenti qualità decorative che pursempre le sue tavole contengono (si pensi a quella magistrale sottolineatura bianca, robusta e potente, di Coca Cola 1, collage e smalto su tavola, del 2006). Ma ancor più oltre: noi penetriamo nei recessi segreti e gelosamente intimi alla scoperta del nostro vero essere. Il resto è retorica, e questo pittore fugge dalla retorica, fugge dall’ambiguità, è il ragazzo felice che liberamente gioca e realizza il sogno, vivendolo nella realtà e rendendolo afferrabile anche a nostro totale beneficio.
Una specie di “Cappella Sistina” del XXI secolo, poiché così verrà considerata la sua opera tra qualche secolo. Questa la mia opinione, ma poi vorrei chiedere al pubblico: «E voi che ne dite?»; e mi divertirei proprio se qualcuno – mostrando i propri limiti e la propria insensibilità – storcesse il naso e si mettesse a ridere. Gli farei allora una lezione di storia dell’Arte dal “Dadaismo” alla “Pittura Materica” di Burri. E parlerei di un nuovo senso grafico che strappa l’immagine all’usuale percorso dell’incisione con rinnovate tecniche attuali in cui la linea si esalta senza imporre la propria funzionalità bensì alle dipendenze dell’oggetto che di fuor dal contesto comune diventa “l’oggetto da museo” (come ci insegnò appunto Marcel Duchamp nel 1917 alla Mostra dadaista di New York), e si fa partecipe quasi in senso egoistico della stesura tonale pittorica (si veda Il gran Golia e in particolare il Golia 1 del 2002). E per quel che riguarda la testimonianza di Burri: esulare finalmente dal colore a olio o a tempera che per secoli si è imposto al pittore (aggiungiamovi oggi l’acrilico), e far colore con le scatole, gli involucri, gli astucci stampati.
Così abbiamo collocato “il nuovo” di Giordano Redaelli («Le opere sono un collage del consumismo», dice di sé egli stesso), ma la completezza del suo assunto pittorico ci porta a richiamare in campo anche la Psicologia dell’Arte. È ben noto a tutti che la psicologia in Europa ha allineato nel secolo scorso la scuola di Freud, la scuola di Jung, la scuola di Adler. Ne conseguì un scuola che prese inizio dalle teorie di Brentano, la Gestalt (o più esattamente la Scuola della “Totalità, Forma, Struttura”): una delle realtà più vive tra le correnti psicologiche, caratterizzata dal rifiuto del concetto di associazionismo, sulla base della constatazione sperimentale che i contenuti delle percezioni si presentano sin dall’origine organizzati in forme e struttura.
Essa ha così elaborato una prima serie di undici leggi che possono servire anche alla maggior comprensione dei valori intimi dell’opera d’arte raffigurativa, e puntualmente - quasi una Tesi di Laurea inconsapevolmente redatta - troviamo tutto ciò nelle opere di Giordano Redaelli. Dimostrazione ulteriore che egli è veramente “testimone” del nostro tempo, “rinnovatore” di un modo di sentire, artista completo nei valori dell’Arte. Dalla piena consapevolezza di questa identità globale viene a noi dalle sue opere anche il messaggio dell’essere “Qui e ora”. Il passaggio avviene attraverso l’area verbale (necessaria alla formazione del mito idealizzante) e ciò è ben espresso dall’utilizzo del packaging di un prodotto di largo consumo, cosicché c’è anche un richiamo, o una presenza, del Lettrismo (Lettering). In una ulteriore e conseguente sollecitazione dell’area SNC dell’orientamento – quella che ci dà cognizione della nostra individualità collocandola nello spazio – si giunge infine a vivere il reale di ciò che sino ad ora il fruitore di questi dipinti intuiva vagamente per il fatto stesso e semplice di essere calato “nell’ambiente”. Così il dipinto risulta immagine quadridimensionale della realtà quotidiana; anzi, diventa quasi più reale del reale strappando il segno più efficiente ed emblematico dal suo contesto e piazzandocelo davanti proprio come fece Marcel Duchamp.
Uno specchio del nostro essere, quasi un’accusa dei nostri limiti e di un eventuale nostro degrado, ma sublimati dal valore “Arte”, e poiché l’Arte, e la vita, e il nostro vivere si fan di SIMBOLI (pensate a quanti simboli, ad esempio, compongono una Messa cattolica e il contesto in cui viene celebrata) ecco: la pittura è simbolo stesso dell’Arte, nelle sue parcellizzazioni nel tempo e nello spazio e nel suo assoluto testimoniale quando si è all’altezza di un Giordano Redaelli. E tutto il resto scopritevelo da voi, dal momento che, felicemente, c’è ancor dell’altro da scoprire in questi dipinti così formalmente pregnanti.

Gabriele Mandel
direttore emerito dell’Istituto di discipline artistiche
all’Università IULM di Milano;
professore onorario all’Accademia Nazionale di Brera.

Usare il marchio per dipingere

di Martina Corgnati

Quando pensiamo a un prodotto, uno qualsiasi, una qualunque cosa che, una volta entrati in un negozio, possiamo comprarci, quasi inevitabilmente esso ci appare (e ci viene venduto) diviso in due: da una parte l’oggetto in sé stesso, dall’altra il packaging che lo avviluppa e gli conferisce, lo vogliamo o no, il suo status molto più della “sostanza” che quel packaging contiene.
Non per niente, non ci metteremmo mai in bocca un cioccolatino senza scatola o senza cartina (e chi l’ha toccato, manipolato, adulterato prima?), così come non compreremmo mai un computer che non fosse provvisto deisuoi relativi involucri e sigilli.
Il packaging è indispensabile per l’acquisto e per l’acquirente che però, non appena possibile, se ne sbarazza per mettere davvero le mani sull’oggetto.
D’altra parte, non appena anche questo passaggio è stato consumato, l’articolo in questione risulta aver cambiato natura: infatti senza l’involucro “originale”il prodotto non è quasi più tale, è un oggetto d’uso, al massimo un “usato” se non peggio, nel caso di sostanze alimentari, un prodotto da
consumare il prima possibile, “fresco”.
Dunque, è la confezione che fa il prodotto: un’ovvietà, evidentemente, tanto più che è proprio la confezione il luogo, lo spazio che accoglie il “marchio” cioè il nome della “cosa”, quel nome proprio che spesso finisce per sostituire del tutto il nome generico: Nokia infatti, nel nostro mondo, sta spesso
al posto di telefonino, Golia al posto di caramella, Marlboro al posto di sigaretta e Norda al posto di acqua minerale. Dopodichè la carta si butta, il pacchetto anche, la bottiglia di plastica pure (nella raccolta differenziata). Iltelefonino invece dura un po’ di più ma soltanto nel nostro utilizzo quotidiano
e non nella sua forma originaria. Si deteriora poco a poco, il display si riga, la batteria si consuma. Ad un certo punto ce ne sbarazziamo e ci mettiamo in caccia di una nuova confezione.
Tutte queste considerazioni nella nostra realtà altamente consumistica sono perfettamente ovvie e banali: tanto che l’arte se ne occupa da almeno mezzo secolo, vale a dire dalla Pop americana in avanti. Ma come lo fa? Andy Warhol aveva capito con assoluta lucidità che il desiderio del consumatore si
rivolge non direttamente al prodotto ma alla sua pelle, vera e propria icona delle divinità più venerate, presenti e “operative” in un’epoca di supermercati, malls e serial televisivi.
Dunque coerentemente, Warhol rappresenta quella
pelle, moltiplicata di numero e dilatata, se possibile, in magnitudo.
Una cosa infatti risulta tanto più grande quanto più bella; tanto più numerosa, ripetuta, insistita, ossessiva, tanto più gradita alla massa di pubblico consumista. Perché il meccanismo è proprio quello: “mi piace” e ti compro, continuo a comprarti; per questo hai diritto a replicarti all’infinito, perché infiniti
sono i miei atti d’acquisto. E per questo, come sappiamo, le classiche tele di Warhol dei primi anni Sessanta sono fittamente coperte, da cima a fondo, di lattine che sfoggiano il logo e il design della Campbell’s, di bottigliette dall’inconfondibile marchio Coca Cola, di confezioni variopinte della polvere detergente Brillo e della faccia plastificata di Marylin Monroe, non persona ma “prodotto” anch’essa, superficiale come tutte le costruzioni mediatiche, che sono solo ciò che appaiono.
È una fase “eroica”, di definizione di una nuova estetica, di aggiornamento dell’idea del bello, del desiderio e del desiderabile. L’artista è il profeta della nuova società e della nuova bellezza, è il cinico e lucido cantore dei “nuovi riti e dei nuovi miti”, come recitava un tempestivo testo di Gillo Dorfles. Ma il suo obbiettivo resta quello di conformare l’arte all’estetica di massa, portandola ad assumere nuovi contenuti, nuove forme e nuove idee. L’arte, per mano di Warhol, ingigantisce questi contenuti e dà loro una forma iconica, carismatica, stabile che, nella dimensione e negli obbiettivi originari dei prodotti di consumo, non era affatto compresa.
Quel che invece in quel momento non cambia è lo statuto stesso della rappresentazione, che Warhol e i suoi contemporanei non avevano affatto intenzione, né bisogno, di modificare. In altre parole: da una parte c’è e resta l’arte, con il suo carisma, la sua desiderabilità e il suo essere rappresentazione, dall’altra c’è il prodotto con la sua natura di involucro, cioè di simulacro.
Per questo nella galleria di Leo Castelli non si espongono scatole o lattine ma quadri e serigrafie; e lo stesso Claes Oldenburg, quando realizza sculture che sono assai simili ad oggetti, per esempio le storiche “pizze”, sta ben attento a servirsi di materiali diversi da quelli di partenza.
Riassumendo dunque, si potrebbe dire che Warhol e compagni svelino definitivamente la natura simulacrale dell’involucro, indiscutibile e “illuminante” in quel momento storico: mentre oggi, che tutto questo è divenuto una perfetta ovvietà, è addirittura possibile ritentare di fare ri-emergere la componente materiale dell’involucro, cioè il suo essere, al fondo, non solo un’immagine ma anche una cosa. Il mondo sembra tutto risolto in immagine pertanto ritrovare da qualche parte le “cose” è senz’altro inaspettato, forse addirittura rivoluzionario.
Ed è precisamente questo che Giordano Redaelli fa. La sua Packaging Art non si sottrae all’aura pop ma la aggiorna, restaurandone, da una parte, la sua componente materiale, pittorica, e dall’altra sviscerando “l’equivoco” che spesso ne sta alla base. Non si tratta più, dunque, di dipingere il marchio
ma di usare il marchio per dipingere e poi anche per rivelare la promessa che il marchio contiene e che il prodotto a volte disattende.
Un marchio che, d’altra parte, è “storico” come il packaging di cui, in un certo senso, fa parte: espressione di un gusto preciso, il packaging è infatti continuamente rivisitato, aggiornato, migliorato, sulla base di un restyling che asseconda o addirittura anticipa le aspettative dei clienti e dell’epoca e storicizza continuamente, togliendole dalla circolazione, tutte le versioni precedenti.
Dipingere con marchi e confezioni dunque significa compiere un atto estetico ma anche un atto di cronaca. È solo in quel particolare momento che è possibile usare quel determinato packaging e non un altro: i dipinti di Giordano Redaelli sono opere d’arte originali e, al tempo stesso, irripetibili testimonianze del gusto e del “clima” culturale e commerciale di un’epoca. Ma è sul primo aspetto che voglio in particolare soffermarmi: perché la vera etichetta dell’acqua minerale “Luna”, raccolta in quanti più esemplari possibile e poi attentamente disposta in pattern regolari, tanto da colmare tutta la superficie del quadro e formare uno sfondo compatto, determina il colore e l’andamento formale, quasi ipnotico della composizione. Il suo valore pertanto diventa autenticamente pittorico, reso più esplicito e intenso grazie agli interventi,
alle “intensificazioni” eseguite a pennello e sovrapposte al tappeto di collage.
Giordano Redaelli soffre di una specie di horror vacui per cui non lascia nulla di vuoto, di intentato, di “non sviluppato” sulla superficie, esattamente come il mondo della comunicazione contemporaneo, dove lo “spazio” non esiste finché qualcuno non lo utilizza mettendoci dentro qualcosa. D’altra parte
il suo “pieno” è materiale, non solo perché è abitato da colori e disegni vivaci, ma perché vive e risplende di tutte le minime increspature, delle piccole pieghe e delle imperfezioni che la carta incollata produce, tanto da consegnarsi allo sguardo come superficie viva e piena di ricchezza estetica, qualche volta
addirittura ipnotica, tutta da esplorare. Lo dimostra, per esempio, il cielo alle spalle della Mole Antonelliana, uno dei lavori più recenti dedicato dall’artista a Torino: un cielo dipinto sui marchi dell’acqua Norda ma vivacemente pittorico,
gestuale e tutto percorso da grandi e carezzevoli nuvole bianche, su cui si staglia potente la sagoma inconfondibile dell’edificio-simbolo della città.
A questo punto, però, Giordano Redaelli cambia improvvisamente le regole del gioco e recupera lo spazio semantico di quelle che, non ci pensavamo più, in realtà sono ancora parole e stanno tutte spiattellate lì, davanti ai nostri
occhi. Luna, per continuare con il nostro esempio, significa qualcosa di preciso nella nostra lingua, e l’artista lascia che la sua fantasia proceda per associazioni libere. Quindi il nome del satellite terrestre evoca l’allunaggio, quel primo, mitico passo di Neil Armstrong, il comandante della missione Apollo
11, il 20 luglio 1969. Giordano Redaelli pertanto dipinge la silhouette dell’astronauta americano, familiare a tutti, con larghe pennellate ad acrilico bianco, e lasciando che le sgocciolature solchino la superficie della “luna”.
Si stabilisce, a questo punto, un territorio polivalente, pieno di potenzialità molteplici, anzi virtualmente inesauribile: ogni marchio è esplorato simultaneamente in base a due logiche disomogenee, quella estetico-visuale e quella semantica e i due “risultati” di questa indagine sono sospinti insieme in un’unica immagine, che in fondo si comporta come gioiosa “apertura”, come esplicitazione di una delle possibilità latenti nelle cose. Gioiosa, perché lo spirito di Giordano Redaelli è sempre, tutto sommato, gioviale e guidato da un certo piacere del packaging, un gusto per il colore e la “buona forma” dell’involucro (“Per me il packaging è bello…”, dichiarava in una recente intervista
con Nicoletta Bernardi).
D’altra parte, Redaelli è egli stesso un uomo “di sintesi”, diviso, ma unito, fra la professione del grafico e l’impegno dell’artista che, nel suo caso, invece che un limite, si è rivelato una risorsa, perché gli consente di esplorare e valorizzare tutti i risvolti del suo “oggetto”. “Io creo packaging e lo conosco”, ammette, “ma come consumatore lo subisco e ne vengo attratto”. Ecco il segreto: lasciar fluire questa doppia possibilità interpretativa, una dimensione ludica e una critica, una “strategia” comunicativa e un correttivo etico.
Il marchio, il logo e il packaging sono tutti fatti e concepiti per far vendere il prodotto (sono “messaggi”), ma al tempo stesso, anzi proprio per questo, limitano la capacità critica, ipnotizzano il consumatore e lo inducono a scegliere piuttosto la vernice smaltata della superficie invece che la sostanza opaca del contenuto. Diseducano e seducono. Il pacchetto delle Marlboro per esempio, così “virile” con quel classico triangolo bianco su fondo rosso, costituisce un richiamo immediato per il fumatore, ma la nicotina e il catrame che le sigarette contengono (e che Giordano Redaelli diligentemente “spalma”
su uno dei due elementi del dittico Il fumo uccide, oppure striscia in vere e proprie sbarre che occupano progressivamente il campo visivo e minacciano di invaderlo tutto nel recentissimo Marlboro 2) distruggono polmoni e
salute. Dalle premesse alle conseguenze (dissimili ma logiche): l’artista esercita sia la possibilità seduttiva sia quella monitoria e crea una dialettica che visivamente “funziona”.
Altrove (America 1), il gioco dei rimandi è più sottile e arbitrario, ma non meno convincente: la sua bandiera americana, una delle icone più popolari e più rischiose della storia dell’arte da Jasper Johns in poi, è composta da etichette
di Pepsi, per il rettangolo blu, e da “strisciate” di bottiglie di plastica di Coca Cola rossa, per le stripes, solcate da tratti di pittura bianca. Giordano Redaelli in realtà ha ragione, ci sono non pochi paesi del mondo in cui gli USA sono identificati con la loro bibita nazionale: in diverse città dell’Africa subsahariana esistono addirittura “monumenti” alla Coca Cola, con tanto di
bottiglia gigante e loghi e marchi, trattati e “usati” dai locali con tutta la rassegnazione di cui solo gli africani, collezionisti “spontanei” di tutto e di tutto curiosi, sono capaci.
Ma per l’artista questo è soltanto uno degli utilizzi possibili (appunto perché la pratica combinatoria si apre a sviluppi pressoché illimitati…): in un altro lavoro recente (America 2), l’all-over, il campo totale di etichette rosse e bianche, opportunamente cosparso di pittura gestuale e piena di intensità espressiva, suggerisce la silhouette di un’aquila, che si delinea in negativo sugli strati di pittura bianca. Aquila, naturalmente, anzi bald eagle che è il simbolo nazionale americano. Ma l’artista non si occupa certo solo di USA, anzi
il suo lavoro mette continuamente in evidenza la natura globale, multinazionale del prodotto: la maionese Kraft, per esempio, è associata con forza all’immagine non di un innocuo pesciolino ma di uno squalo assai simile a quello reso popolare, nel mondo dell’arte, da Damien Hirst, il cioccolatino “Fiat
Noir” all’automobile FIAT 500, le bustine di Twinings “English Breakfast” o “Earl Grey” a una bella teiera, panciuta e rassicurante.
Anzi, se proprio dovessimo trovare una costante, una “tendenza” nei packaging adoperati da Giordano Redaelli, dovremmo riconoscerla nella predilezione per i prodotti alimentari, beni davvero primari più e più fondamentalmente
di qualunque altro, di cui nessun consumatore può davvero fare a meno e che però, pur nella loro “primarietà”, convogliano significati e implicazioni diversissime e spesso sottilmente venate di ideologia.
Quasi superfluo sottolineare che, di fronte a queste ultime, Giordano Redaelli non solo non si allinea ma compie una sistematica operazione di “ecologia della comunicazione”, esplicitando allegramente quella stessa ideologia, o quello che viene comunque fatto passare sottopelle.
Qualche volta l’ironia è più esplicita: nel caso delle varie versioni di Tango, ad esempio, in cuil’ardito passo di una coppia di ballerini è inquadrato su un tappeto di anticoncezionali variopinti, l’artista risale dalle conseguenze alle premesse, all’attrazione, alla sensualità, al “gioco” delle parti, intese come “partners”.
Qualche volta, invece, la deduzione è più letterale: dalla “Golia”, o dall’ “Ambrosoli”, alla silhouette della stessa caramella, tracciata a contorni grossi, incisi, pesanti e schematici, che riportano a molte immagini di Lichtenstein, specie agli Still Life e alle Brushstroke, cioè a “citazioni”, tradimenti e ripensamenti dei dipinti dell’espressionismo astratto, comunque di altra arte.
In effetti, il procedimento di Giordano Redaelli innesca una straordinaria serie di percorsi à rebours, di avvitamenti spiraliformi nella storia dell’arte. Al di là dell’evidenza esplicita del prodotto, è l’arte, infatti, con le sue trame, le
sue necessità, la sua storia e le sue evidenze, il mondo più segreto che affiora in trasparenza oltre alle sue immagini. Lichtenstein, Warhol, Jasper Johns certo si riconoscono per primi ma, a guardare con più attenzione, le colature
di pittura densa, di colori puri che discendono compatti verso il limite inferiore della superficie, evocano le sapienti spezzature pittoriche dello Schifano dei monocromi, certi blu quasi violenti fanno pensare a De Maria e lo squalo riporta, non a un animale vero, ma senz’altro a quello “reso opera”, e record d’asta, da Damien Hirst.
Potenza dell’immaginario collettivo, che l’arte concorre a formare e in cui però subito rientra, almeno con i suoi “top pieces”.
Giordano Redaelli lo sa, e non si sottrae a questo gioco di significazioni, a questa spirale quasi infinita di rimandi e riferimenti. D’altra parte, anche se lo volesse, non potrebbe
farlo: ogni immagine è figlia di altre immagini e tuttavia vive in relazione al proprio tempo (come diceva Kandinsky), nel punto di incontro di due assi virtuali, del passato e del presente e, perché no?, anche di un’ipotetica proiezione di futuro. Un futuro in cui, forse, non ci sarà più packanging nei negozi e negli outlet ma ci saranno ancora le opere di Redaelli che, con grazia e allegria, ne racconteranno ancora un senso estetico e un valore d’immagine.

presentazione di Valentina Zolla

Giordano Redaelli con la tecnica del collage e la precisa trasposizione del packing contemporaneo pone le basi per la trasposizione nel futuro della nostra società attuale. Una gestualità precisa che rafforza l’immagine, il brand, la consapevolezza della realtà nella ricerca di noi stessi. Ogni oggetto diventa un inno gioioso all’estetica, un prezioso testimone del tempo che consegna la nostra identità al futuro. Le creazioni artistiche di Giordano riescono a riappropriarsi del sentimento contemporaneo più profondo, senza esasperare il rovesciamento del linguaggio artistico come nell’accezione dadaista, ma con la consapevolezza formale che ogni singolo oggetto fa parte di noi stessi e della nostra percezione del reale. Ognuno di noi si identifica nelle rappresentazioni tridimensionali di questi oggetti comuni, trovando una parte di sé, del proprio linguaggio, riscoprendo l’emblema e la bellezza del quotidiano e della collettività.

bibliografia

  • - Absolut mail art, Martina Corgnati, 1997, Mondadori Electa
  • - Da che arte stai?, Luca Beatrice, 2010, Rizzoli
  • - Pittura dura, Iovane e Barbero, 1999, Mondadori Electa
  • - Quando i rifiuti diventano arte, Lea Vergine, 2006, Skira
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